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Le sanzioni “giuste”

Il disegno di legge delega sulla riforma fiscale in discussione in Parlamento (atto Camera n. 1038) comprende la revisione del sistema sanzionatorio amministrativo, unitamente a quello penale e ai criteri di collegamento fra processo penale e processo tributario. L’importanza dell’annunciato intervento impone una riflessione attenta sulla storia e sui princìpi. Buttare via il bambino con l’acqua sporca non sarebbe un gesto di maturità, piuttosto potrebbe esporre l’edificio riformatore a difetti non meno gravi di quelli da superare.

Muovo da qualche cenno storico sul sistema amministrativo, dato che niente nasce dal niente e tutto si tiene anche nell’esperienza del diritto. La legge delega n. 662 del 1996 affidava al legislatore delegato dell’epoca tre obiettivi principali da conseguire: rendere il sistema punitivo “coerente”, “efficace” ed “equo”, ossia coerente ai princìpi superiori, efficace sul piano preventivo, equo su quello repressivo. L’apparato risultante dalla legge n. 4 del 1929, infatti, come scrisse Franco Batistoni Ferrara con grande limpidezza, era una “tigre dagli artigli di cartone”: feroce, ma al tempo stesso e paradossalmente iniquo e inefficace.

La riforma fu animata da due scelte ideali di fondo: riferire la responsabilità solo alla persona fisica autrice materiale della violazione e, abrogata la sopratassa, fare della sanzione pecuniaria uno strumento non solo punitivo, ma anche dissuasivo. Il presupposto concettuale, dunque, era semplice e si radicava su un’interpretazione estensiva e garantista dell’art. 27 della Costituzione e sui princìpi già introdotti dalla legge n. 689 del 1981, sulla giurisprudenza della Corte costituzionale, su quella della Corte unionale e della Corte EDU, e finalmente sugli studi di una parte della dottrina tributaria e di altre branche delle scienze sociali.

Il cuore del ragionamento, in parole semplici, fu questo: siccome solo la persona fisica può commettere materialmente una violazione, e siccome solo la persona fisica può “sentire” la pena, tanto sul piano della prevenzione, quanto su quelli della retribuzione e rieducazione, è alla persona fisica soltanto che essa si può e si deve riferire. E ciò indipendentemente dal tributo e dagli effetti prodotti dalla violazione sul tributo stesso.

Questa, infatti, avrebbe dovuto essere la vera svolta concettuale: sganciare l’imposta evasa e la sua obbligazione dalla sanzione e dalla sua obbligazione. Diverse per cause e titoli giuridici, avrebbero potuto mantenere in comune, com’è poi avvenuto, soltanto la “base” da cui muovere, ossia l’imposta evasa, al solo scopo, però, di determinare la pena irrogabile. Per il resto avrebbero dovuto correre su binari sì contermini, ma separati.

Ed infatti, coerentemente, si dispose la “contestazione della violazione” alla stregua di procedimento ordinario di applicazione della sanzione, da attuare con avviso specifico, diverso e separato dall’avviso di accertamento dell’imposta, con una sua motivazione e l’indicazione delle prove riferibili alla violazione contestata; si dispose la non riscuotibilità della sanzione fino a sentenza, seppur solo di primo grado, e poi la non trasmissibilità della stessa agli eredi, a differenza, com’è finanche banale dirlo, dell’obbligazione a titolo d’imposta. Quanto alla finalità dissuasiva affidata alla nuova sanzione pecuniaria, il segno più evidente fu quello affidato al ravvedimento operoso, volto a sollecitare, proprio in ragione della pena brandita della legge, un comportamento resipiscente del trasgressore.

La prima bozza del decreto delegato esaminata dal Consiglio dei ministri enunciava il principio di personalità in questi termini, senza deroghe o attenuazioni, con un’impostazione coerente con il presupposto concettuale di partenza.

A seguito di un serrato dibattito con le parti sociali, nella bozza finale del decreto comparvero i primi correttivi. Si introdussero, così, le norme sulla responsabilità solidale dell’ente nel pagamento della sanzione pecuniaria, sulla facoltatività del regresso, sull’accollo dell’obbligazione da parte dell’ente e sulla limitazione a cento milioni di lire della responsabilità personale dell’autore materiale, sempreché avesse agito con colpa “semplice”.

Il modello normativo di riferimento fu quello dell’art. 197 del codice penale sulla “obbligazione civile delle persone giuridiche per il pagamento delle multe e delle ammende”, non quello, come pure si è scritto in dottrina, del responsabile d’imposta. E fu con questi “aggiustamenti” che alla fine venne approvato il decreto n. 472.

Da più parti, tuttavia, si sostenne che le modifiche introdotte “in corsa” non erano comunque in grado di superare il “vizio” di fondo della legge, ossia la riferibilità della violazione al suo autore materiale. Le violazioni tributarie riportabili ad un ente, si disse, dovevano essere sempre sganciate dal loro autore materiale giacché questi non agiva per sé, per un suo tornaconto, ma per l’ente stesso e quindi non poteva che essere quest’ultimo il responsabile della violazione e della sua obbligazione.

Una diversa normazione, pertanto, sarebbe stata possibile. E la tesi della finzione giuridica dell’imputazione alla persona giuridica dell’azione e degli effetti giuridici, unitamente alla visione della pena come gravame puramente oggettivo, fatto di sola “pecunia”, disgiunto da qualsiasi connotazione psicologica riferita ad un soggetto in carne ed ossa, avrebbero potuto sorreggerla.

Di qui l’art 7 del decreto legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, con il quale si recise il cordone tra persona giuridica e persona fisica sua agente e si stabilì che le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale di società o enti con personalità giuridica dovessero rimanere “esclusivamente a carico della persona giuridica”.

Dalla riforma sono ormai passati ben venticinque anni. Ciò nonostante è come se il sistema si trovasse ancora immerso nel paradosso ricordato in apertura: tuttora iniquo, giacché feroce con i pochi trasgressori presi con le mani nel sacco o più semplicemente responsabili di violazioni bagatellari, formali o meramente interpretative, ma anche e al tempo stesso inefficace su larga scala.

Io credo che il permanere di questo paradosso sia generato da una molteplicità di fattori: dall’incoerenza del sistema uscito dagli “aggiustamenti” originari, dalla non applicazione di molte previsioni del d.lgs n. 472, dalla mancanza di investimenti in strumenti e personale, dalle deroghe normative disorganiche via via introdotte. La legge sui princìpi, pur in larga misura snaturata, aveva ed ha molte caratteristiche positive. Con essa si superarono sovrapposizioni non più tollerabili, come quella della contestuale applicazione alla medesima violazione di sopratassa, pena pecuniaria e interessi di mora, si ridussero nel loro ammontare tutte le misure edittali e si introdussero regole di civiltà giuridica di grande rilievo. Si pensi al principio di legalità, alla disciplina sulla continuazione e progressione, e come ho già ricordato al ravvedimento operoso, al procedimento di preventiva contestazione e difesa anticipata, alle norme sulla prova, e alla intrasmissibilità dell’obbligazione agli eredi. E poi si pensi alle disposizioni sull’errore, sulla forza maggiore, a quelle sull’imputabilità. Norme di grande pregio non soltanto perché in linea con l’interpretazione interna dei princìpi costituzionali, ma anche con la giurisprudenza unionale ed internazionale in materia di “penalità”.

Eppure, nonostante gli indubbi progressi e, mi vien da dire, il “bel diritto” che quella legge seppe esprimere anche dal punto di vista della “scrittura”, con norme finalmente di principio e scritte con l’inchiostro giuridico di un tempo, non si può negare che il sistema imponga una rivisitazione, nel tentativo di superare, per l’appunto, le sue perduranti debolezze e iniquità.

Oggi come ieri, le debolezze consistono nella sua scarsa idoneità a prevenire l’illegalità ed a stimolare comportamenti virtuosi. L’esperienza storica lo dimostra in termini inconfutabili.

L’iniquità, oggi più di ieri, si coglie in molti aspetti: nell’esosità delle misure edittali, incapaci di retribuire nella giusta proporzione la violazione, incapacità per eccesso, sia chiaro, anche in ragione delle “smisurate” sanzioni criminali via via introdotte; nello scarso uso della pena come misura di premialità positiva; nella previsione di fattispecie che ostacolano l’applicazione del principio di specialità e del divieto del bis in idem sostanziale; nella moltiplicazione delle misure punitive per fatti inopinatamente esclusi dalla continuazione; nella schizofrenia dei meccanismi di raccordo fra processo penale e quello tributario. Ma si coglie anche e forse soprattutto nella disparità che si determina tra chi finisce per essere punito ferocemente e chi, per fatti anche più gravi, riesce paradossalmente a non esserlo per “difetti” del sistema. Ed  si coglie pure nella difformità di trattamento – dal 2003 mai rimossa – fra società ed enti con personalità giuridica, e persone fisiche, società ed enti privi di personalità giuridica.

Una vera riforma dovrebbe abbracciare tutti gli aspetti appena indicati e pertanto quelli riguardanti le fattispecie e le sanzioni, amministrative e penali, comprese le misure di sicurezza patrimoniale e di prevenzione patrimoniale; i profili procedurali e istruttori in sede amministrativa e in sede penale; e infine quelli processuali, nelle due giurisdizioni.

Riforme di sistema, dunque, cristalline nell’approccio e altrettanto chiare e coerenti nel loro svolgimento normativo. Saldamente ancorate, però, ad alcuni presupposti culturali, di cultura giuridica intendo dire, ancor prima che di diritto positivo. Le pene, anzitutto, non possono che assolvere alle funzioni retributiva,  dissuasiva nel mantenimento dell’illegalità, rieducativa, preventiva generale, ed anche   ad una più limitata funzione di premialità positiva. In secondo luogo, le pene, proprio perché tali, non possono che trovare il loro titolo giuridico sostanziale in fatti che in ragione del loro contrasto con gli interessi ordinamentali a presidio dei quali le pene stesse sono disposte, divengono essi stessi titolo giuridico sostanziale della reazione coercitiva dello stato.

La specificità del titolo giuridico sostanziale, dunque, non può fare della sanzione un mezzo riparatorio o risarcitorio, come in origine era qualificata la vecchia soprattassa; scopi, questi, per i quali già operano specifici strumenti di legge e che si reggono su differenti titoli giuridici sostanziali. Insomma, detto in parole semplicissime: le pene sono pene, non sono accessori del debito d’imposta, e questa connotazione non può essere oscurata neppure dal vento riformatore.

Anzi, personalmente credo che marcare in maniera ancor più incisiva la diversità strutturale fra tributo e pena amministrativa non sarebbe affatto un fuor d’opera, anzi consentirebbe di recuperare, senza troppi giri, equità ed efficacia.

A questo doppio risultato si potrebbe arrivare, per un verso, legando la commisurazione della sanzione pecuniaria, sempre riferibile all’ente o alla società, con o senza personalità giuridica, a quote ad importo fisso, pur variabili nel numero, similmente a quanto previsto dal d.lgs. n. 231 del 2001, conferendo al giudice tributario il potere di controllo in punto di irrogazione delle quote stesse; per un altro verso, soltanto per violazioni di particolare gravità, riservare all’autore materiale una sanzione limitativa di specifiche funzioni, sulla falsariga del testo unico sulla finanza (e della attuali sanzioni accessorie previste dall’art. del d.lgs. n. 472).

In questo modo, pur riferendo sempre la sanzione pecuniaria all’ente o società, si rafforzerebbe l’efficacia deterrente della “penalità” complessivamente riguardata: introducendo le quote, con una griglia normativa definita alla quale l’amministrazione si dovrebbe riferire in prima battuta, si eliminerebbe il fantasma civilistico che tuttora aleggia sul sistema sanzionatorio e la commistione fra pena e tributo; mantenendo un ragionevole contrasto di interessi tra ente ed organo, questo sarebbe sollecitato a garantire un’organizzazione interna in grado di prevenire almeno i comportamenti illeciti più gravi.

A questo “tassello”, tuttavia, si dovrebbe all’evidenza affiancare la revisione dei reati, lasciando alla tutela penale solo le fattispecie di frode e omessa dichiarazione. E si dovrebbe affiancare una contestuale revisione della responsabilità degli enti prevista dal decreto n. 231 del 2001.

Insomma, quel che occorre è una riforma davvero sistematica, non solo di “sistemazione”, che coinvolga al tempo stesso l’ambito amministrativo, quello penale e quello para-penale, ispirata al principio di proporzionalità e all’unicità della reazione punitiva, rifuggendo da spinte giustizialiste e moraleggianti che la storia si è già incaricata di dimostrare largamente inefficaci e, nella loro concreta applicazione,  inique e schizofreniche.

Il disegno di legge delega in discussione in Parlamento contiene princìpi e criteri direttivi che per molti aspetti si avvicinano agli auspici finora formulati e che, per quanto mi riguarda, già da tempo ho portato all’attenzione del pubblico dibattito. L’attuazione della delega sarà il vero banco di prova della volontà riformatrice.

Alessandro Giovannini

Professore Ordinario di Diritto Tributario, Università di Siena
Avvocato, Commercialista e Revisore dei Conti


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