La crisi della democrazia
Il tradimento dello spirito democratico: le radici della crisi della democrazia
Per il filosofo Norberto Bobbio una delle promesse non mantenute della democrazia è lo “spirito democratico”. Questo sarebbe un ideale insito nella democrazia, un suo mattone costitutivo, che ne farebbe l’unica forma di governo nella quale l’autosufficienza deriva da quella che Montesquieu denominava la “molla spirituale”. Basterebbe mettere in moto quella molla perché il suo moto prosegua all’infinito e la democrazia mantenga vive le sue caratteristiche.
Bobbio ha probabilmente ragione. Non per il modello in sé, ma per l’abuso che di esso hanno compiuto e compiono tuttora alcuni soggetti: dirigenti, partiti, movimenti e cittadini.
A un certo punto, l’utilizzo inadeguato della democrazia determina un corto circuito del modello stesso. A dimostrarlo c’è la crisi della progettualità politica e del pensiero, l’apatia crescente, l’allontanamento dalla vita politica attiva degli elettori che fa da contraltare ai populismi imperanti, l’anarchia risorgente e la mancanza del senso e del riguardo istituzionale.
Invece di un attaccamento sempre più forte, si assiste al rigetto di quel modello anche da parte della classe dirigente: la democrazia non è più l’unico catalizzatore e non lo sono neppure le sue istituzioni.
La vendetta della democrazia come rappresentazione teatrale
La democrazia è, in un certo senso, vendicativa. I modelli e i princìpi che presidiano le libertà, i diritti, l’uguaglianza e la giustizia, se oltraggiati ricambiano l’offesa non consentendo al sistema nel quale sono innestati di andare avanti. Al pari dei meccanismi mal tarati di un orologio che si inceppano e ne bloccano il movimento, decidono di auto-dissolversi per “vendicarsi” degli abusi subiti. Una sorta di punizione finale, di vendetta appunto, verso chi non ne ha riconosciuto e rispettato la nobiltà e l’essenzialità.
La mia è una rappresentazione teatrale della democrazia, che qui ho volutamente raffigurato come un essere in grado di intendere e di volere. Sappiamo che non è così e che la mistica applicata a questi modelli è tanto suggestiva quanto irreale. Tuttavia, torna utile come metafora.
Eppure, la Storia insegna che qualcosa del genere è già accaduto e potrebbe accadere di nuovo. È possibile che anche la democrazia liberale sia destinata ad essere sostituita da qualcosa di diverso. Qualcosa magari non ancora progettato con esattezza, quello che Colin J. Crouch ha chiamato post-democrazia.
Accanto alla decadenza dello spirito democratico, una ferita profonda in seno alla democrazia è stata aperta dallo straripamento della liquidità. Attraverso cui si è provocata una crisi – va detto per onestà intellettuale – dovuta anche alla maniera distorta che molti hanno attuato del mandato rappresentativo ricevuto dagli elettori.
Sovranità popolare e crisi della democrazia
“La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, afferma l’art. 1 della nostra Carta costituzionale. Cosa significa questo in concreto? Che nessun altro è sovrano oltre il popolo, ma che anch’esso è soggetto alle regole della Costituzione
La Costituzione riconosce al popolo, per rendere concreta quella sovranità, il diritto-dovere del voto politico e dunque di eleggere i suoi rappresentanti in Parlamento.
I parlamentari, oltre ad esercitare la funzione legislativa, sono legittimati dalla Costituzione a eleggere il Presidente della Repubblica; a esprimere la fiducia o la sfiducia al Governo, il cui Presidente è previamente nominato dal Capo dello Stato; a eleggere alcuni giudici della Corte costituzionale e membri del Consiglio Superiore della Magistratura, e via dicendo.
Questo è il nostro modello di democrazia rappresentativa, con qualche goccia di democrazia diretta come nel caso dei referendum abrogativi e delle proposte di legge di iniziativa popolare.
L’altra faccia della crisi dei nostri giorni sta proprio qui: nei limiti e nelle forme di esercizio della sovranità, da tempo sottoposti a profonda critica e a tentativi di superamento, se non addirittura di scardinamento. Con l’ausilio delle tecnologie informatiche, della Rete, delle piattaforme et cetera, si propongono di modificare radicalmente o sostituire il modello di democrazia rappresentativa con modelli di democrazia partecipativa oppure, come si dice con un abile e ingannevole gioco di parole, di democrazia diretta.
L’illusione della democrazia diretta e la crisi della democrazia: un nuovo oppio dei popoli?
La democrazia partecipativa è prima di ogni altra cosa una categoria politologica e non propriamente una categoria giuridica. Nella sua dimensione narrativa cerca di virilizzare uno dei caratteri tipici della democrazia diretta, ossia la partecipazione senza filtri del popolo alle scelte di governo.
Stando a questa nuova narrazione, la Rete non è più solo “luogo” di manifestazione di opinioni ma è anche cabina elettorale virtuale: vi si applica lo stesso esercizio del voto.
Gli esiti di questa partecipazione virtuale sono quindi considerati da chi vota alla stregua di decisioni vere e proprie, vincolanti per le istituzioni. Di conseguenza, non solo è irrilevante chi siede in Parlamento o il sistema di “nomina”, ma sono irrilevanti e in qualche misura d’intralcio le istituzioni stesse, le loro regole e i loro pesi e contrappesi. Tutti elementi che, invece, in democrazia sono il “sale” della dinamica dei poteri.
Lo dico senza inutili giochi di parole: una narrazione simile è il nuovo oppio dei popoli, uno dei più grandi bluff della contemporaneità.
Parlare di “oppio dei popoli” non vuol dire disconoscere alla Rete funzione “terapeutica”, di sfiatatoio di pensieri desideri ed emozioni, a iniziare dalla rabbia. Far partecipare il popolo al dibattito politico è un modo nobile per dare risposta a malesseri diffusi e per riavvicinare i cittadini alla cosa pubblica. Da questo punto di vista, è senz’altro uno strumento apprezzabile.
Parlo di “oppio” con un altro scopo: mettere in risalto l’effetto d’intontimento creato da quello strumento quando viene spacciato acriticamente come panacea dei nostri mali.
Democrazia diretta: una tensione storica che si ripete?
La razionalità tecnologica e la logica del dominio che essa porta con sé, per riprendere le efficaci espressioni di Herbert Marcuse, aprono scenari inesplorati non solo dal punto di vista delle forme di comunicazione, ma anche della formazione o manipolazione delle volontà individuali e collettive. È possibile che il vero scopo dell’uso di quell’oppio sia modificare la forma della nostra democrazia. In sintesi, che il bluff contenga in sé un disegno molto più complesso e articolato.
L’impulso alla partecipazione diretta d’altronde non è figlio dei nostri tempi, ha radici antiche. Le molle più profonde sono state sempre le stesse: lo smarrimento dei fini della visione e dell’azione politica tradizionale, il decadimento morale della classe dirigente e le sofferenze economiche diffuse e stratificate.
Jean-Jacques Rousseau, in questo senso, è senz’altro il più importante teorico della democrazia diretta, almeno tra quelli a noi temporalmente più vicini, e il suo nome nei tempi recenti è tornato alla ribalta.
Il nocciolo del Contratto sociale del 1762, l’opera principale del filosofo svizzero, è questo: la democrazia diretta è la sola forma di governo con la quale il popolo sovrano esprime la volontà generale, altrimenti violata dall’infedeltà dei rappresentanti eletti. Il popolo sovrano, pertanto, è suddito soltanto di sé stesso e la volontà generale è una «verità oggettivamente esistente» insita in ogni uomo, appartenente alla sua natura. Il fine della volontà generale è quello di indurre o costringere il singolo uomo e poi il popolo alla libertà. La volontà generale, così formata e ricondotta in assemblee popolari, guiderà la nazione e al popolo spetterà il controllo dello Stato, senza che nessun cittadino sia legittimato a godere di privilegi.
L’idea di base è quella di dare al popolo o ai neoleader investiti dal popolo, senza nessuna intermediazione istituzionale o con intermediazioni minimali o di facciata, il diretto comando dello Stato.
L’utopia della democrazia diretta: i limiti storici della sua applicazione
Non so dire se democrazia e formazione della volontà con costrizione o induzione del singolo possano convivere in un’armonica costruzione sociopolitica, oppure siano a tal punto configgenti da elidersi a vicenda.
Quale che sia la risposta, la Storia si è incaricata di dimostrare in maniera inconfutabile due fatti.
Il primo: al di là di brevissimi periodi, nella storia recente queste forme di governo si sono rivelate impraticabili. Per vari motivi: innanzitutto, il numero sempre maggiore di cittadini appartenenti alle singole comunità. Poi, per la stratificazione e la diversificazione culturale, religiosa e politica dei loro componenti. Infine, per gli interessi economici spesso confliggenti delle loro “anime” sociali.
Il secondo fatto è che dove si è voluto collocare la volontà generale alla guida ideologica dello Stato, si è sconfinato in forme dittatoriali di esercizio del potere stesso.
Sotto la cenere della partecipazione diretta del popolo alla formazione della volontà generale si è quasi sempre nascosto il fuoco incendiario della “nazionalizzazione delle masse”.
Anche Benito Mussolini definì il fascismo «la forma più schietta di democrazia» e Joseph Goebbels, teorico ed esecutore del nazionalismo hitleriano, affermò che lo Stato nazionalsocialista era «la più nobile forma di Stato democratico moderno». Eppure, nessuno può seriamente dubitare che quei sistemi fossero vere e proprie dittature mosse dall’idea, senz’altro malata nelle modalità e nei fini, di dare voce al popolo per contrastare le debolezze delle forme di governo precedenti. Così come nessuno può dubitare che i regimi dell’Europa orientale nati dalla Rivoluzione d’Ottobre fossero vere e proprie dittature, pur mosse inizialmente dall’esigenza di portare il popolo al comando e alla gestione della cosa pubblica.
Certo, la “volontà generale” per Rousseau era semplicemente il motore della sovranità. Tuttavia, per chi si richiamò in qualche modo alla sua ricostruzione quella volontà divenne il grimaldello per aprire le porte alle dittature.
L’aspetto utopistico della partecipazione diretta si presta, come tutte le utopie o le fedi, all’irrigidimento in culto ufficiale, un po’ com’è capitato alle tesi socialiste nell’Europa orientale e in altre parti della Terra. Così è accaduto, accade e accadrà ai tentativi esasperati di attribuzione diretta del potere al popolo, anche se portati avanti in contesti storici e politici diversi da quelli nei quali si sono sviluppate le dittature del secolo trascorso.
Quello che a me preme mettere in evidenza è piuttosto la sostanziale somiglianza del sottofondo ideologico che contraddistingue e lega tutti i movimenti tesi a dare voce alla sovranità popolare nella forma della democrazia diretta. Alla fine, se riescono a fare attecchire le loro ideologie nelle coscienze e nei comportamenti individuali, quei movimenti tracimano in sistemi di controllo e orientamento generalizzato delle volontà.
Siamo sicuri, allora, che spacciare la “partecipazione” in Rete per una forma di democrazia diretta non sia in realtà un escamotage utilizzato a bella posta per influenzare e determinare, proprio, la volontà di una porzione sempre più ampia di popolazione? Escamotage che da noi è ancora embrionale ma che può essere l’avvio di un processo in grado di determinare, dopo lo stordimento o usando lo stordimento, l’involuzione del nostro modello democratico.
Alessandro Giovannini
Professore Ordinario di Diritto Tributario, Università di Siena
Avvocato, Commercialista e Revisore dei Conti