I soldi in Tesoreria non ci sono! La pioggia di miliardi, annunciata con la stessa enfasi con la quale si leggono le vincite della lotteria Italia, non potrà bagnare la terra arida del commercio e dell’industria, delle professioni e del terziario, se non fra qualche mese, quando sarà troppo tardi.
Il decreto “rilancio“: la virtù della leggerezza
Il decreto “rilancio”, approvato dal Consiglio dei Ministri il 13 maggio, ha una caratteristica: la pesantezza. Non sembri una battuta ironica o uno sbeffeggiamento: non intendo – ne è mio costume – perculare chi sta in qualche modo lavorando.
Intendo, piuttosto, rifarmi al bel saggio che Italo Calvino dedicò alla leggerezza (La leggerezza, Passi scelti, da Lezioni americane). La leggerezza, diversamente dalla pesantezza, è un virtù, che impone di fare una cosa tanto semplice quanto, proprio perché semplice, paradossalmente difficile: togliere peso, sottrarre, scarnificare. Togliere peso alle cose e dunque al pensiero, al linguaggio, alle figure umane, alla scrittura, alle sentenze, agli apparati burocratici e, finalmente, alle leggi.
Togliere, togliere e togliere per dare spazio alle libertà
Il decreto “rilancio”, approvato dal Consiglio dei Ministri il 13 maggio, ha una caratteristica: la pesantezza. Non sembri una battuta ironica o uno sbeffeggiamento: non intendo – ne è mio costume – perculare chi sta in qualche modo lavorando.
Intendo, piuttosto, rifarmi al bel saggio che Italo Calvino dedicò alla leggerezza (La leggerezza, Passi scelti, da Lezioni americane). La leggerezza, diversamente dalla pesantezza, è un virtù, che impone di fare una cosa tanto semplice quanto, proprio perché semplice, paradossalmente difficile: togliere peso, sottrarre, scarnificare. Togliere peso alle cose e dunque al pensiero, al linguaggio, alle figure umane, alla scrittura, alle sentenze, agli apparati burocratici e, finalmente, alle leggi.
Togliere per dare spazio alla sostanza delle cose, alle libertà, che delle cose sono le più preziose. Anche le Sacre scritture ne parlano: «Il di più viene dal maligno», ricorda Matteo, l’evangelista (Mt. 5, 37).
Quando il peso diventa … illeggibile
Per poco che ci si soffermi sul testo del decreto, appare evidente come esso sia doppiamente pesante: nella forma e nella sostanza. Dal primo punto di vista, non si dice nulla di nuovo denunciando la lunghezza biblica dell’articolato, formato da 256 articoli per complessive 464 pagine, la complessità del linguaggio, l’arcaicità della scrittura, l’infarcitura di rinvii ad altre leggi, decreti, trattati europei, l’incoerenza sistematica di alcuni temi. Insomma, la solita giungla di parole, casi e sottocasi, regole ed eccezioni, alle quali assistiamo sgomenti ma anche, ormai, rassegnati da tempo immemore.
Il terribile vizio della pesantezza delle leggi sembra infatti inestirpabile, come fosse l’erba gramigna. Lo denunciarono non solo Alessandro Manzoni, tratteggiando magistralmente la figura dell’Azzeccagarbugli, ma anche, con parole di fuoco, giuristi di chiara fama: da Piero Calamandrei a Costantino Mortati, da Alessandro Pizzorusso a Augusto Fantozzi, e poi Gustavo Zagrebelsky, Natalino Irti, Michele Ainis, Bernardo Giorgio Mattarella e molti altri.
Continuare a battere questo tasto è tempo perso: la pesantezza delle leggi è voluta, vien da dire è scelta scientificamente meditata per imbrigliare ancor di più i cittadini e per accrescere il potere burocratico e quello giudiziario. È una scelta fatta, insomma, per ridurre le libertà di autodeterminazione dell’individuo.
I soldi che non ci sono
La leggerezza ha anche una faccia più sostanziale, che poi è l’altro corno della pesantezza. È la faccia bensì delle libertà, ma di quelle economiche. Sipuò forse dire che è la faccia della loro vitalità, fatta di lavoro, intrapresa, indipendenza, crescita, benessere, appagamento e realizzazione.
La cascata di miliardi dipinta nel decreto, per ora, è soltanto proclamata. Quei miliardi, sebbene scritti in un atto normativo, non ci sono o, meglio, ci sono in minima parte. E non ci sono perché la Tesoreria, ossia l’organo che gestisce la liquidità per conto dello Stato, non ha soldi in cassa sufficienti per dare seguito alle promesse. La pioggia di miliardi, annunciata con la stessa enfasi con la quale si leggono le vincite della lotteria Italia, non potrà bagnare la terra arida del commercio e dell’industria, delle professioni e del terziario, se non fra qualche mese, quando sarà troppo tardi.
Perché la pioggia cada, dovranno essere emessi titoli del debito pubblico e avviare le tortuoseprocedure interne ed europee per arrivare all’erogazione dei denari. Non finisce qui. Il governo, entro poche settimane, dovrà farsi carico di trovare altre risorse, perché i 55 miliardi previsti nel decreto “rilancio” rappresentano solo la quarta parte dei soldi che serviranno per evitare la débâcle sociale ed economica del paese. E serviranno entro l’autunno.
Il pesce e la canna da pesca
La pesantezza sostanziale del decreto sta anche in un altro aspetto, speculare al precedente e anch’esso limitativo delle libertà. È un aspetto tutto politico.
C’è un proverbio, attribuito forse impropriamente a Confucio, che dice: «Date a un uomo un pesce e mangerà un giorno. Insegnategli a pescare e mangerà tutta la vita». Ora, nell’emergenza non c’è tempo per insegnare a pescare, la fame va tolta subito con un pesce affumicato, lo sappiamo. Ma una classe dirigente che abbia l’ambizione di “guardare oltre“, non solo deve togliere subito le grinze della fame, non solo deve contestualmente insegnare a pescare, ma deve anche progettare le migliori canne da pesca possibili, quelle che consentano di lanciare l’amo lontano dalla riva, il più lontano possibile.
Il decreto in discussione non fa nulla di tutto questo: non dà il pesce, perché si limita ad annunciare un pesce che verrà, almeno in larghissima misura; non insegna a pescare, perché nessuna riforma strutturale è messa in cantiere; non progetta nuove canne da pesca, perché non c’è al suo fondo nessun progetto paese. Quel che c’è è spesa corrente, quasi tutta di natura assistenziale e in massima parte solo promessa.
Davvero poco per ricostruire l’Italia.