Il Recovery fund e la farsa della solidarietà

Il Recovery fund e la farsa della solidarietà

         L’Europa politica era, è e rimarrà ancora a lungo un’incompiuta. L’Europa dei popoli e della solidarietà era, è e sarà ancor più a lungo una Turandot senza finale.

Recovery fund, solidarietà e nazionalismi

Chi ha vinto e chi perso nella trattativa sul recovery fund è difficile da stabile con precisione. E poi è un esercizio di corto respiro, perché, quale che sia la risposta, essa perde il suo appel dans l’espace d’un matin. 

Per chi crede nell’Europa dei popoli, la vera domanda da porsi è un’altra, che sta prima dei numeri: ha vinto l’Europa della solidarietà o hanno vinto, ancora una volta, i nazionalismi? 

La risposta non deve cedere alla suggestione anticipatrice dell’ideologia e men che meno della propaganda. Deve invece obbedire alla maggiore obiettività possibile. E allora, se si usa questo metro, si deve dire che l’Europa dei popoli e della solidarietà non ha vinto. 

Il debito fintamente comune

Il pilastro che sorregge l’intero piano di ripartenza, ossia l’accensione del debito da parte della Commissione europea, non risponde affatto a un disegno di collettivizzazione dello stesso debito e dunque a un disegno di solidale fratellanza. Risponde piuttosto a interessi nazionalistici molto accentuati. 

Non s’intende negare lo sforzo, si vuole dire che la scelta va spogliata della retorica una pò pelosa sulla solidarietà, argomento usato con magniloquenza da un folto coro di attori politici.

Il ristoro straordinario 

Anzitutto il debito della Commissione è strumento eccezionale, non strutturale, determinato da una situazione economica d’emergenza. Il testo dell’accordo, sul punto, è inequivoco: “l’Unione utilizza i fondi presi in prestito sui mercati dei capitali al solo scopo di far fronte alle conseguenze della crisi COVID-19”. E poi: “il piano rappresenta una risposta eccezionale a una situazione estrema, ma temporanea”, pertanto “chiari limiti di entità, durata e raggio d’azione vincolano il potere di contrarre prestiti conferito alla Commissione”. 

In parole semplici: è un intervento una tantum e mirato. E non poteva essere diversamente, perché l’Europa non è né uno stato, né una federazione di stati. 

I bilanci sigillati (o quasi) dei singoli stati

Si potrebbe tuttavia dire che, sebbene misura una tantum, il debito in capo alla Commissione non può che determinare uno sforzo comune di tutti i paesi, di tutti i popoli. Chi più ha, più sopporterà il peso degli aiuti concessi a chi meno ha. L’animo solidaristico, perciò, invocato da Italia, Spagna, Portogallo, Francia, Germania, ha finalmente trionfato.

Una osservazione di questo genere sarebbe radicalmente sbagliata, perché le cose non stanno così. Nessuno stato membro sopporterà il peso degli aiuti che andranno ad altri stati membri. Si ripete: nessuno stato si metterà sulle spalle i costi degli altri, né utilizzerà i propri bilanci per aiutare chi ha più bisogno. Tutti gli oneri saranno sostenuti con “la strategia di finanziamento diversificata” che sarà adottata dalla Commissione, ossia con gli strumenti della finanza di mercato, e con la revisione delle entrate proprie dell’Unione, vale a dire con nuove imposte. Solo in casi eccezionali e alla fine del piano, la Commissione potrà chiedere ai singoli stati un contributo straordinario predeterminato. Niente di più.

Il potere di quasi veto

L’ulteriore e altrettanto decisivo motivo che non consente di parlare di vittoria dell’Europa dei popoli, è questo. Permettere alla Commissione di trovare sul mercato 750 miliardi è il grimaldello messo in mano alla Commissione stessa e al Consiglio dei Capi di Stato e di Governo per entrare direttamente all’interno dei bilanci degli Stati membri, per indirizzare le scelte di spesa, per influenzare le riforme nazionali e per indicare le modalità di gestione dei denari pubblici. Sì, nell’accordo c’è anche questo: la Commissione detterà “le giuste condizioni per la rapida attuazione dei progetti d’investimento, in particolare nelle infrastrutture”. 

Non si dice che questa strategia sia in sé sbagliata, magari è pure straordinariamente efficace, ma non è questo il punto che ora importa valutare. Si dice una cosa diversa: in questa strategia la solidarietà c’entra come il cavolo a merenda! E il piano approvato a Bruxelles non segna nessun passaggio epocale per la costruzione di una casa comune dei popoli!  

Vero è, invece, che l’accensione del debito comunitario, da un lato, potenzia i poteri della Commissione e, dall’altro e forse soprattuto, rimette in partita il Consiglio. Almeno in seconda battuta, in una sorta di pin pong tra i vari organi di funzionamento dell’Unione, qualora uno stato membro sollevi dubbi sulla corretta attuazione degli investimenti da parte dei paesi beneficiari dei finanziamenti, sarà proprio il Consiglio a dovere nuovamente intervenire.  

L’Europa politica era, è e rimarrà ancora a lungo un’incompiuta. L’Europa dei popoli e della solidarietà era, è e sarà ancor più a lungo una Turandot senza finale.

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